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Il faut remonter à la source – qui n’est pas l’origine.
L’origine est, en tout, imaginaire. La source est le fait en deçà duquel l’imaginaire se propose.
Paul Valéry I. Giovanni Galvani, Modena e la ‘preistoria’ della Filologia Romanza
Modena. Prima metà degli anni ’30 del secolo scorso. In una delle sale di lettura della Biblioteca Estense, un giovane allievo del Liceo “Muratori” incontra un celebre Professore di Filologia Romanza e gli domanda consigli per avviarsi allo studio dei Trovatori provenzali. Il Professore suggerisce di cominciare dalle Osservazioni di Giovanni Galvani, un vecchio libro stampato più d’un secolo prima, nel 1829. Lo studente, un po’ sorpreso, torna a chiedere se non ci fossero lavori più recenti. Ce n’erano molti, ribatte il Professore, tra i quali anche i suoi, ma aggiunge che era importante cominciare da quel vecchio libro. Perché? Per due ragioni:
perché lui stesso aveva cominciato con Galvani e, soprattutto, perché Galvani era modenese.
Lo studente, che in breve tempo diverrà uno dei romanisti più importanti della sua generazione, si chiamava Aurelio Roncaglia; il Professore, Giulio Bertoni (Roncaglia, 1978a: 92- 93; Milano, 2004: 45).
Questo aneddoto vale, in certa misura, come un riassunto con molti omissis d’una parte rilevante della storia della Filologia Romanza in Italia e, segnatamente, a Modena. È fuori discussione che, a partire dal s. XIII, il Veneto abbia giocato un ruolo fondamentale sia nella confezione di sillogi manoscritte, sia negli studi ‘pre-’ o ‘proto-filologici’ sulla poesia dei Trovatori (Folena, 1976; Lachin & Zambon, 2008); tuttavia, due secoli dopo l’approdo dei Vulgares eloquentes provenzali nella ‘gioiosa Marca’, anche a Modena sorge – e del tutto in parallelo all’attività degli eruditi di origine veneta – un interesse peculiare per l’antica poesia in lingua d’oc che ha costituito il punto di partenza – e nei secoli successivi imprescindibile punto di riferimento – d’una lunga tradizione di studi protrattasi fino ai nostri giorni. Lo stesso Galvani (1845a: 7) ricordava che “primo in Italia a scrivere dottamente della lingua e della poesia provenzale era Giovanni Maria de’ Barbieri modenese; e questi raccogliendo la singolare dottrina sua in un libro ch’egli intitolava Arte del Rimare”, mentre, più d’un secolo dopo, Roncaglia (1978b: 626) scrive, tracciando il profilo di Giulio Bertoni, che “ad accendere la sua [di Bertoni] vocazione agli studi filologici fu appunto quella tradizione modenese che da Giammaria Barbieri, Ludovico Castelvetro, Carlo Sigonio era continuata viva e feconda fino a Giovanni Galvani, i cui scritti sulla poesia dei trovatori costituirono, per lui, una stimolante lettura”.
Benché quasi contemporaneo dei ‘padri fondatori’ della Filologia Romanza scientifica – François Raynouard (1761-1836) in Francia; Friedrich Diez (1794-1876) in Germania –, Galvani (1806-1873) non è, a rigore, l’iniziatore d’una scienza filologica in Italia, ma piuttosto
“uno degli illustri rappresentanti di quella lunga serie di studiosi modenesi che si possono considerare gli antesignani della filologia romanza” (Milano, 2004: 43; Brancaleoni, 1998).
Peculiare figura di poliedrico erudito, Galvani si colloca dunque sul crinale che separa, sotto il rispetto del rigore scientifico, l’erudizione sapiente degli umanisti del s. XVI e dei loro epigoni dalla fondazione – in Italia con una generazione di ritardo rispetto alla Germania e alla Francia, ma con notevoli risultati raggiunti in poco tempo – della Filologia Romanza come disciplina storico-positivistica. Le sue ricerche provenzali, in effetti, non hanno né il rigore, né la profondità dei lavori di Raynouard e di Diez ed è anzi facile verificare come oggi quasi nessuno legga più (per limitarsi ai due lavori di più ampio respiro) né le Osservazioni, né il Fiore (Galvani,
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1829 e 1845a): nelle edizioni critiche realizzate negli ultimi quarant’anni non si rintraccia che un solo rinvio all’erudito modenese (Vatteroni, 1986: 85).
Ciò premesso, sarebbe tuttavia ingiusto liquidare Galvani come un dilettante provinciale di studi provenzali. Benché lontano dal metodo e dal rigore della Filologia scientifica francese e tedesca, Galvani ha comunque preparato il terreno per lo sviluppo della Romanistica in Italia. È stato, ad esempio, uno dei primi a richiamare l’attenzione sull’utilità di studiare in chiave comparativa i volgari italo- e gallo-romanzi (Galvani, 1843a), nonché sulla necessità d’una buona preparazione classica per affrontare studi di linguistica storica (Galvani, 1840b). Inoltre, le sue ricerche sulla poesia dei Trovatori testimoniano comunque intuizioni che, a quasi due secoli di distanza, conservano intatta la loro validità: nelle Osservazioni, per esempio, si legge una buona sintesi dei problemi – parte dei quali ancora oggetto di dibattito nella Provenzalistica odierna – che pone il genere ‘sirventese’ (Galvani, 1829: 81-99), mentre nel Novellino provenzale (lo si vedrà più avanti) Galvani formula considerazioni sulle antiche biografie trobadoriche che la Filologia Romanza esporrà in forma rigorosamente scientifica solo molto tempo dopo. Non va poi dimenticato che proprio a Galvani – prefetto della Biblioteca Estense – si devono sia la prima pubblicazione di testi dal canzoniere provenzale D – non a caso Adolfo Mussafia (1867) dedica “al Conte Giovanni Galvani in Modena” la sua monografia su questo importante testimone della lirica trobadorica –, sia la prima edizione in Italia delle Razos de trobar di Raimon Vidal secondo la lezione del canzoniere P (Galvani 1843b), edizione che provocò un’accesa polemica da parte di François Guessard (18582), al quale Galvani rispose tredici anni dopo con uno scritto (Galvani, 1871) che, secondo l’autorevole parere di Adolf Tobler (1873: 337), propone “un nombre considérable de corrections, qui en partie du moins méritent l’approbation, et non pas seulement lorsqu’elles s’accordent avec celles de Diez, qui du reste lui étaient inconnues”.
Per comprendere l’isolamento della posizione di Galvani, già presso i filologi suoi contemporanei, occorre tenere in conto due elementi fondamentali.
In primo luogo – e contrariamente a Diez, titolare dal 1830 della prima cattedra di Romanische Philologie all’Università di Bonn o a Raynouard, eletto membro nel 1807 della prestigiosa ‘Académie Française’, nel 1816 dell’‘Académie des Inscriptions et Belles-Lettres’ –, Galvani, funzionario di corte appassionato per la ricerca erudita, non è mai stato né inquadrato nei ranghi universitari, né affiliato a importanti accademie. E già questo giustificherebbe ampiamente lo scetticismo con cui le sue ricerche potevano essere accolte negli ambienti universitari.
In secondo luogo, Galvani realizza la maggior parte dei suoi lavori provenzali negli anni 1820-1850, vale a dire nello stesso periodo, e al contrario di quanto accadeva in Francia e in Germania, in cui la Filologia Romanza non fa parte dei curricula universitari italiani. La prima cattedra – nella sua pristina formulazione statutaria di “Letterature neo-latine” o, come usava allora più frequentemente, “Storia comparata delle Letterature neo-latine” – fu istituita, per volontà del glottologo Graziadio Isaia Ascoli, all’Università di Milano nel 1873 (per inciso, lo stesso anno della morte di Galvani) e, a partire dal 1874, fu assegnata a Pio Rajna. L’attività del Galvani ‘proto-provenzalista’ è dunque parallela alla formazione accademica della prima vera generazione di romanisti italiani (Lucchini, 1990: 147-190): Domenico Comparetti (1835-1927), Alessandro D’Ancona (1835-1914) e i più giovani Pio Rajna (1847-1930), Francesco D’Ovidio (1849-1925) ed Ernesto Monaci (1844-1918).
Può essere interessante allora rileggere l’opera di Galvani come l’ultimo capitolo di un’ideale cronaca della ‘preistoria’ della Filologia Romanza in Italia. E un paragrafo di rilievo di
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tale cronaca – singolare esperimento di ibridazione tra ricerca erudita e (ri-)creazione letteraria – è rappresentato proprio dal Novellino provenzale (Galvani, 1870), ovvero la più antica traduzione moderna in una lingua romanza – ancor più antica, almeno nelle sue prime fasi redazionali, della versione francese detta de ‘l’Indigène’ – di un’ampia selezione di vidas e razos trobadoriche.
II. Il Novellino provenzale. Storia del testo e appunti sulla traduzione
Galvani lavora a questo progetto in maniera discontinua per circa 30 anni. Tre le fasi principali, tutte elaborate a partire dal testo delle biografie trobadoriche stampato da Raynouard (1820) nel tomo V dello Choix de poésies originales des Troubadours.
a) 1840. Del probabile autore del “Centonovelle” antico. Dissertazione che contiene la traduzione di 6 biografie trobadoriche (Galvani, 1840a).
b) 1841. Fiore di novelle occitane. Articolo che propone altre 18 biografie tradotte in italiano (Galvani, 1841).
c) 1870. Novellino provenzale. Volume che riprende, con leggere varianti di forma e di stile, le 24 traduzioni del 1840-1841 (punti a e b) e vi aggiunge 58 nuove versioni inedite (Galvani, 1870).
Nella dissertazione del 1840 (a), Galvani non considera le vidas come fonte autonoma sulla poesia dei trovatori. Le antiche biografie non sono che “uno spediente” per dimostrare una teoria che oggi fa sorridere per la sua ingenuità: la teoria, come anche (e soprattutto) il metodo adottato per la sua dimostrazione. Galvani sostiene infatti che l’autore del Novellino medievale sia Francesco da Barberino e che, più precisamente, questa raccolta di racconti debba essere identificata con il Fiore di Novelle, un’opera perduta dello scrittore toscano derivata, secondo quanto asserito dall’umanista Federigo degli Ubaldini, da una fonte provenzale del pari perduta, il Fiore di nobili detti d’un non meglio identificato “monaco di Montaldo” (Reggimento, XXIX- XXXII; Galvani, 1840a: 198-202). Per persuadere i lettori della bontà della sua teoria – e qui si può misurare la distanza intera che lo separa dai suoi contemporanei francesi e tedeschi – Galvani (203-207) ritiene sufficiente proporre una collazione stilistica tra i racconti del Reggimento, i racconti del Novellino medioevale e 6 biografie trobadoriche che egli stesso traduce in italiano:
dalle Vite de’ Trovatori provenzalmente descritte, io verrò ora traendo alcuni fatticelli; e questi da me tradotti con ogni fedeltà alla lettera quasi rigorosa, riesciranno come naturalmente in altrettante Novellette. Se io così adoperandomi, e cercando di trasportarmi, secondo mie forze, all’epoca in cui fu scritto il Centonovelle, varrò ancora a riprodurne con poca differenza lo stile: che ne sarà da ciò? Ne sarà, credo, che i miei lettori si persuaderanno viemmeglio e quasi per una istorica prova, che esso Novellino fu dettato sulla falsa riga provenzale, e però da uno intimo e profondo conoscitore di quella favella, il che varrà forse quanto il dire […] che fu con tutta probabilità dettato da Messer Francesco da Barberino.
Sull’ipotesi e sulla sua dimostrazione non mette conto insistere. Più proficuo è invece estrapolare da questo passaggio gli elementi utili per definire la personale ‘teoria della traduzione’ di Galvani.
L’atto del tradurre, nella sua primaria funzione di ricodificazione d’un messaggio in strutture lessicali e sintattiche distinte dalla lingua in cui tale messaggio è stato formulato, implica sempre da parte del traduttore un’operazione, preliminare e contestuale, di esegesi. Nel
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caso del Novellino provenzale – e già nelle sue fasi ‘preparatorie’ (Galvani, 1840 e 1841) –, l’attitudine di Galvani, che considera le vidas alla stregua dei racconti medioevali del Novellino, offre un’importante chiave di lettura sia dell’interpretazione che il traduttore fornisce delle antiche biografie provenzali, sia delle scelte compiute nella traduzione. Di fatto, il termine
“novelle” (declinato in vario modo: “novellette”; “novelle”; “novelline”) rimane costante in tutta la storia del Novellino provenzale, anche quando l’interesse di Galvani per le biografie trobadoriche non è più funzionale alla questione attributiva del Novellino antico. Lo si ritrova, in particolare:
a) nell’appel à contributions finanziarie che Galvani pubblica, nel 1840, per proporre agli editori italiani un’enciclopedia in più volumi sull’antica letteratura di Provenza (1840c: 315);
b) nel titolo stesso del Fiore di Novelle e nella sua premessa (1841: 266);
c) nella prefazione al Fiore di storia letteraria (1845a: 26);
d) nel titolo stesso del Novellino provenzale e, a più riprese, nella sua premessa (1871: VII, IX, XI-XIII, XIX e XXI).
Fin dalla dissertazione del 1840, il filtro del Novellino medioevale svolge un ruolo determinante già negli elementi paratestuali. Le traduzioni sono introdotte sia dal titolo
“novella” seguito da un numerale (da 1 a 6), sia da una ‘rubrica-titolo’ – presenze costanti, l’uno e l’altra, anche nell’articolo del 1841 e poi nel Novellino provenzale – che riassume il contenuto del testo in poche frasi introdotte da clausole come “Qui conta di/come […]”, “Di […]”, o “Come […]” (Galvani, 1840: 207, 209, 210, 212, 213 e 214):
Novella 1: Qui conta come la Viscontessa di Penna si rendesse Monaca per falsa novella Novella 2: Come Bertrando dal Bornio fece di suo senno una Donna intrascelta Novella 3: Di una valente risposta di Messer Bertrando dal Bornio
Novella 4: Come Messer Guglielmo del Balzo, rubò uno mercadante, e come ’l mercadante ricovrò suo avere
Novella 5: Qui conta di Messer Gioffredo Rudello, e della Contessa di Tripoli Novella 6: Di Guglielmo della Torre, e come amò sua donna.
Il confronto con le rubriche dei racconti del Novellino medioevale è, in effetti, del tutto automatico (testo Conte, 2001):
Novella 20: Della grande liberalità e cortesia del Re d’Inghilterra
Novella 24: Come lo ’mperadore Federigo fece una quistione a due savi, e come li guiderdonò Novella 82: Qui conta come la damigella di Scalot morì per amore di Lancialotto del Lac.
Non sfuggirà, inoltre, che vidas e razos tradotte da Galvani nella dissertazione del 1840 – ma il rilievo vale anche per il successivo articolo del 1841 e per il Novellino provenzale – concordano a livello tematico – witze, disavventure rocambolesche, storie sentimentali ad alto tasso di pathos, episodi di proverbiale generosità – con le ‘linee-guida’ raccolte nella rubrica introduttiva che, in parte della tradizione manoscritta, accompagna il Novellino medioevale (testo Conte, 2001):
Questo libro tratta d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie, e di be’ risposi e di belle valentie e doni che per lo tempo passato hanno fatti molti valenti uomini.
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Stringendo invece il fuoco sugli aspetti più tecnici della traduzione occorre precisare il significato che Galvani attribuisce alla sua dichiarazione di “fedeltà alla lettera quasi rigorosa”
(1840: 206). Benché infatti La Salle de Rochemaure (1910: II, 358) considerasse il Novellino provenzale una mera raccolta di traduzioni delle vidas, le versioni di Galvani si allontanano in più punti dal dettato originale e spesso anche con interventi sostanziali al limite, se non ben oltre, del rimaneggiamento. Tali alterazioni non derivano da imperfetta conoscenza della lingua d’oc e rispondono invece a un preciso disegno esegetico del traduttore che, non di rado ma con risultati molto diseguali, si sostituisce all’antico biografo, ‘correggendone’ alcuni passaggi e rifacendone ex novo altri. Si deduce allora che la “lettera” alla quale Galvani professa fedeltà
“quasi rigorosa” va intesa come ‘stile’, più precisamente ‘forma’, ma non certo ‘contenuto’. E ciò che effettivamente più colpisce nelle sue traduzioni è proprio la patina fortemente arcaizzante della lingua: tanto elevato è il grado di mimesis perseguito dal traduttore che le versioni del Novellino provenzale (s. XIX) assomigliano notevolmente a prose di pieno s. XIV.
Un esame approfondito dello stile del Novellino provenzale porterebbe il discorso troppo lontano e non è la ricognizione che mi propongo di effettuare in questa sede. Per darne comunque un’idea riassumo per punti le caratteristiche salienti (gli esempi sono tratti dai testi che si commenteranno nel prosieguo).
a) Lessico. Sovrabbondanza di gallicismi, latinismi e vocaboli che nel s. XIX erano ormai usciti dall’uso comune: ispacciò (‘inviò un messaggio’); difici (per ‘edifici’); Raona (per ‘Aragona’);
primieri (per ‘primi’); mercatante (per ‘mercante’); savere (per ‘sapere’); predicanza (per ‘predica’);
leggieri (per ‘leggeri’); misuso (‘abuso’); paltoniera (‘mendicante’); soprastamento (‘decisione’);
guiderdone (‘ricompensa’), miraglio e speglio (dittologia sinonimica gallo-italiana per ‘specchio’).
b) Morfologia. Soprattutto nei verbi, Galvani predilige quasi sempre le forme più arcaiche della diatesi che, ancora ben acclimatate nella lingua poetica del s. XIX, erano ormai in forte recessione nel linguaggio della prosa: gittato (per ‘gettato’); fusse, fue e seriano (per ‘fosse’, ‘fu’ e
‘sarebbero’); nodrire (per ‘nutrire’); traessano (per ‘traessero’); avea (per ‘avevo’ e ‘aveva’).
c) Sintassi. Generalmente poco complessa, come del resto lo è anche la sintassi degli originali. Galvani rispetta però fedelmente la cosiddetta ‘legge di Tobler-Mussafia’: e fecelo nodrire; partissi dal signore; andossene per le corti; faceasi appellare; fattolisi innanzi.
Queste soluzioni stilistiche sono in forte contraddizione con la lingua della prosa italiana nell’ultimo terzo del s. XIX. La vicenda editoriale delle traduzioni galvaniane comincia, con la dissertazione del 1840, quando Manzoni, dopo la proverbiale “risciacquatura dei panni in Arno”, pubblica la terza edizione de I Promessi Sposi (1840-1842). Nel 1870, quando Galvani stampa il Novellino provenzale, il modello linguistico proposto dalla ‘Quarantana’ – una lingua plasmata sul toscano vivo delle classi colte, depurata di forestierismi, nonché di vocaboli e strutture sintattiche di tradizione arcaica – comincia a imporsi (nonostante qualche resistenza) come punto di riferimento della prosa letteraria; ciononostante il Novellino provenzale rimane fedele a scelte linguistiche arcaiche, ispirate dal bon usage della tradizione letteraria delle Origini.
Tali scelte però non sono dettate dal virtuosismo ‘prezioso’ d’un traduttore nostalgico dell’arcaico e del desueto, ma rappresentano l’applicazione pratica d’una precisa ‘teoria del tradurre’ che accorda preferenza – e, in prospettiva storica, riconosce primato – agli elementi stilistici del testo di partenza sia rispetto al suo contenuto, sia rispetto all’evoluzione diacronica della lingua d’arrivo.
Lo stile del Novellino provenzale – che conferma scelte già compiute nella dissertazione del 1840 e nell’articolo del 1841 – è il risultato d’una profonda riflessione sulla traduzione dei testi medievali che Galvani (1845b) aveva pienamente formulato e applicato nella sua versione della
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Cronique [sic] des Veniciens di Martino da Canale. La patina arcaizzante di questa traduzione – omologabile in toto a quella delle versioni dal provenzale – è giustificata da Galvani (1845b, 231- 251) in un “Discorso del traduttore”, dal significativo titolo “Perché le Lingue Volgari di Francia fossero scritte prima di quelle d’Italia; e perché gli antichi Italiani le anteponessero talvolta alle proprie”. Sottolineando energicamente precocità e primato culturali della Gallo- Romania, Galvani difende la legittimità – ovvero, la necessità – dei gallicisimi arcaizzanti nella traduzione di testi medioevali. In altri termini: non è possibile tradurre dall’antico francese o dal provenzale adottando soluzioni stilistiche ‘moderne’ che obliterino le caratteristiche lessicali e sintattiche delle lingue originali.
Le posizioni difese in questo Discorso ricompaiono intatte venticinque anni dopo, e anzi si rafforzano, nel Novellino provenzale. Nella prefazione, il traduttore dichiara infatti che non ci sono che due modi per ascoltare la viva voce dei Trovatori: consiste il primo in un minuzioso studio storico dei poeti e della loro epoca, il secondo nella traduzione delle vidas, eseguita con una “fedeltà totale”, che in termini molto espliciti è spiegata come ‘fedeltà allo stile’ (Galvani, 1870: XXI)
vorrei però credere che dal lettore ne avrò indulgente condonazione in vista almeno della tinta, secondo suol dirsi, locale, che per tale industria vien conservata ai fatti ed ai reggimenti di persone vissute nel XII e nel XIII Secolo: la scrittura è infatti la vesta della parola, e come amiamo in antiche rappresentazioni veder riprodotto ogni sincrono costume e portamento esteriore; così è possibile non gli spiaccia sentire in questo scrittarello parlare od i trovatori direttamente, o dei trovatori indirettamente, con tutte le maniere linguistiche che loro erano affatto proprie.
Entrando quindi nel vivo della traduzione delle Vidas realizzata da Galvani, i numerosi interventi del traduttore si possono raggruppare in tre categorie.
a) Rimaneggiamenti lievi. Interventi che modificano brevi passi del testo provenzale con amplificazioni in chiave esegetica, oppure con interventi censorî di idee e/o situazioni che la prospettiva moralistica di Galvani giudica inammissibili o pericolose.
b) Rimaneggiamenti profondi. Interventi che modificano ampi passi del testo provenzale con l’aggiunta di chiose di carattere erudito, oppure con la rielaborazione di episodi ritenuti moralmente ‘pericolosi’ (fin’amor e/o situazioni eticamente riprovevoli).
c) Interpolazioni. Interventi che non modificano direttamente il testo provenzale in quanto si tratta di brevi frasi o interi paragrafi elaborati da Galvani con le stesse funzioni già additate per i rimaneggiamenti di tipo a e b.
III. Rimaneggiamenti lievi
Questi interventi sono fondamentalmente di tre classi. La prima è di tipo ‘esplicativo’; la seconda di tipo ‘esegetico’; la terza di tipo ‘censorio’.
I rimaneggiamenti con funzione esplicativa incidono su passi del testo provenzale nei quali l’antico biografo introduce cambi di luogo, tempo e/o situazione, oppure espone il risultato finale d’un processo del quale sono però omesse le fasi anteriori.
Non di rado questo tipo di intervento risulta assolutamente ridondante, come si osserva ad esempio nella traduzione della vida di Marcabru nella redazione tràdita dal canzoniere A (qui e sempre Choix V = Raynaourd, 1820; Np = Galvani, 1871, entrambi seguiti dalle rispettive pagine):
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Choix V: 251 Np: 8
Marcabrus si fo gitatz a la porta d’un ric homes, ni anc no saup hom qui’l fo ni don. En Aldrics del Vilar fetz lo noirir
Marcabruno si fu gittato alla porta d’un ricco barone, né anche non seppe uomo veramente chi elli fusse né donde. Messer Alderico del Villare lo raccolse e fecelo nodrire
Se per un verso la resa di ric homes con “ricco barone” rientra nel novero di scelte lessicali tese a maggiore precisione – la ricchezza di Aldric è così tradotta, sul piano araldico, con un titolo nobiliare –, per l’altro l’aggiunta dell’avverbio “veramente” non apporta supplementi rilevanti di informazione a ni anc no saup hom qui’l fo ni don. Ridondante del pari è l’amplificazione
“lo raccolse”, giacché l’azione è già del tutto implicita nel fetz lo norir dell’originale.
Più interessante, invece, la traduzione del paragrafo seguente. Secondo A, testo-base della traduzione di Galvani, gli avvenimenti della biografia marcabruniana si susseguono in questo ordine:
a) Marcabru è un orfano di origine sconosciuta allevato da Aldric del Vilar;
b) per un certo periodo di tempo è chiamato Panperdut;
c) entra in contatto con il trovatore Cercamon;
d) diviene egli stesso trovatore e cambia il suo nome in Marcabru.
Galvani interviene però sul testo provenzale con una curiosa aggiunta:
Choix V: 251 Np: 8
apres estet tan ab un trobador que avia nom Cercamon, q’el comenset a trobar; et adoncx avia nom Panperdut, mas d’aqui enan ac nom Marcabrun.
Appresso stette tanto con un trovatorello, che avea nome Cercamondo, ch’elli cominciò a trovare altresì, et allora dicevasi Panperduto. Ma come venne in Guascogna, gli feron credere ch’elli era de la terra, e figliuolo di una povera donna ch’ebbe nome Maria Bruna, e da qui innanzi si disse Marcabruno
Si tralasci pure la gerarchia di valore (del tutto soggettiva) insita in “trovatorello”, per trobador. Il passaggio rilevante è l’interpolazione che tiene seguito all’antico nome di Marcabru.
Mentre la vida A non fa menzione alcuna dell’origine guascona del trovatore, il dettaglio – con annesse generalità onomastiche della madre – è invece presente nella redazione K: Marcabrus si fo de Gascoingna, fils d’una paubra femna que ac nom Maria Bruna (Choix V, p. 251; sic, si tratta d’un errore di lettura di Raynouard per Marca Bruna tràdito da K). Galvani, dunque, non contamina la vida A interpolandovi passi della vida K, ma elabora un paragrafo supplementare a partire dai dati di quest’ultima. Così facendo racconta però una storia in parte diversa da entrambe le redazioni. Nel Novellino provenzale
a) Marcabru è chiamato Panperdut prima e dopo l’apprendistato presso Cercamon (mentre in A il primo nome è sostituito dopo l’incontro con questo trovatore);
b) il cambio del nome si produce solo dopo il suo arrivo in Guascogna (ma né A, né K fanno riferimento a un viaggio del trovatore in terre guascone);
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c) patria (Guascogna) e famiglia (la madre Maria Bruna) del trovatore non sono dati incontrovertibili (come nella redazione K), ma dicerie che i Guasconi fanno credere a Marcabru che a sua volta
d) decide di cambiare il proprio nome.
Una particolarità materiale della fonte utilizzata da Galvani spiega questo intervento. Nel tomo V dello Choix (p. 251), Raynouard stampa infatti le vidas A e K di Marcabru l’una di seguito all’altra, ma senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza segnalare che si tratta di due testi distinti (cf. foto).
Sviato dalla mise en page dello Choix, Galvani deve aver considerato come un unico testo le vidas A e K e, di conseguenza, è intervenuto per dare coerenza a quei dati relativi all’origine e alla famiglia di Marcabru che ai suoi occhi risultavano contraddittorî, dal momento che solo la redazione K, ovvero, nella mise en page dello Choix, solo la seconda sezione del testo, forniva
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queste informazioni esplicitamente, ma in maniera poco coerente rispetto alla prima sezione (vale a dire la vida A).
I rimaneggiamenti di tipo esegetico si manifestano in micro-interpolazioni che rallentano il racconto dell’antico biografo con brevi chiose relative (in larga parte, ma non solo) alla ricezione medioevale dei Trovatori in Italia, il più delle volte secondo la prospettiva dantesca.
Nella vida di Guglielmo IX, ad esempio
Choix V: 115 Np: 3
E saup ben trobar e cantar: et anet lonc temps per lo mon per enganar las domnas
Andò lungo tempo per lo mondo per ingannare le donne, donde avvenne ch’elli amò la lingua donnesca e volgare, nella quale fu tra’ primieri a saper ben trovare e cantare
è difficile parafrasare “lingua donnesca” – ‘lingua delle donne’? ‘lingua appropriata per parlare alle donne’? o ‘per farle innamorare’? –, ma è plausibile supporre che nell’intervento di Galvani agisca il ricordo della riflessione dantesca della Vita nova sull’origine della poesia d’amore in volgare: “e lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, alla quale era malagevole d’intendere li versi latini” (Gorni, 1996: § 16.6; mio il corsivo).
La prospettiva di Dante guida invece con sicurezza due interventi praticati nella traduzione della vida di Peire d’Alvernhe:
Choix V: 291 Np: 10
Peire d’Alvernhe si fo del evesquat de Clermon
[…]
Mout fo onratz e grasitz per tots los valens barons e per totas las valens dompnas. Et era tengutz per lo meillor trobador del mon, tro que venc Guirautz de Borneill
Pier d’Alvergna il vecchio si fu del Vescovado di Clermonte
[…]
Molto fu onorato e grazito per tutti li valenti baroni e per tutte le valenti donne, ed era tenuto per lo miglior trovator del mondo, si che venne Giraldo di Bornello che fu creduto li passasse innanzi.
Nel primo passo, l’epiteto “il vecchio” evoca il brano del De Vulgari Eloquentia nel quale Dante menziona il trovatore alverniate tra i più antichi poeti in lingua d’oc: “pro se vero argumentatur alia, scilicet oc, quod vulgares eloquentes in ea primitus poetati sunt in perfectiori dulciorique loquela, ut puta Petrus de Alvernia et alii antiquiores doctores” (Mengaldo, 1968: I.x.2;
mio il corsivo).
Nel secondo passo, la valutazione del prestigio di Guiraut de Borneilh, “che fu creduto li passasse innanzi”, evoca automaticamente la celebre palinodia di Purgatorio XXVI, vv. 115-120 (testo Petrocchi, 1966-1967; mio il corsivo):
“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno”
col dito”, e additò uno spirto innanzi,
“fu miglior fabbro del parlar materno.
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Versi d’amore e prose di romanzi soverchiò tutti; e lascia dir li stolti che quel di Lemosì credon ch’avanzi”.
Difficile è però spiegare perché Galvani collochi entro la biografia di Peire d’Alvernha una riflessione dantesca che riguarda invece la gerarchia di valore tra Giraut de Borneilh e Arnaut Daniel. Sul passo bisognerà ritornare con maggiore attenzione in altra sede.
I rimaneggiamenti di tipo censorio silenziano o disinnescano situazioni del testo originale che la prospettiva etico-religiosa di Galvani giudica sconvenienti e/o pericolose.
Un buon esempio di questi interventi lo offre la traduzione della vida di Folquet de Marselha:
Choix V: 150 Np: 115
el per tristeza de la soa dona e dels princes qu’eron mortz, abandonec lo mon; e rendec se en l’orde de Sistel, ab sa molher et ab dos fils que avia. E fon fatz abas d’una rica abadia qu’es en Proensa, que a nom lo Torondet; e pueis fon fatz avesques de Toloza, e lai definet
elli per troppo di tristezza della sua donna e delli principi ch’erano morti, abbandonò lo mondo e rendessi nell’Ordine di Cistello. Venne spiritale e penitente, fu fatto abate di una ricca Badia ch’è in Provenza, e che ha nome lo Torondetto, poi fu fatto Vescovo di Tolosa, e là, per occasione dell’eresia, finì in gran travaglio e disdetta.
Nel momento in cui Folquet si rende a Cîteaux, la traduzione elimina la menzione della moglie e dei figli del trovatore (e rendec se en l’ordre de Sistel, ab sa molher et ab dos fils que avia).
Galvani – forse memore anche del rilievo che Dante attribuisce a Folquet in Paradiso IX, vv.
64-142 – deve aver giudicato sconveniente che il futuro vescovo di Tolosa amasse un’altra donna, avendo già moglie legittima e figli. La soppressione di questo riferimento è compensata però da due micro-interpolazioni di segno religioso.
La prima interpolazione rafforza il cambiamento radicale che suppone l’ingresso in monastero. Il trovatore che in precedenza si era dedicato totalmente al canto cortese – “e questo cielo / di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui; / ché più non arse la figlia di Belo, / noiando e a Sicheo e a Creusa, / di me, infin che si convenne al pelo” si ricorderà con i versi danteschi (Paradiso IX, vv. 95-99; testo Petrocchi, 1966-1967) –, in età avanzata “venne spiritale e penitente” e l’aggiunta chiarisce quelli che, per Galvani, dovrebbero essere i reali moventi della conversione di Folquet – religiosi, quindi, e non mondani –, giacché l’antico biografo si era limitato a dire che il trovatore prese i voti soltanto per tristeza de la soa dona e dels princes qu’eron mortz.
La seconda interpolazione – “per occasione dell’eresia, finì in gran travaglio e disdetta” – da un lato, sembrerebbe quasi il referto d’un castigo che, in prospettiva cristiana, il traduttore infligge a Folquet per la sua vita anteriore eccessivamente sensuale, ma, dall’altro, potrebbe anche alludere all’attiva partecipazione di Folquet alla repressione degli ‘eretici’ del Midi ai tempi della ‘Crociata albigense’, impegno che procurò all’ex-trovatore un notevole astio da parte dei Tolosani, come si ricava dalla Canso de la Crozada (Stroński, 1910: 97-98; Gouiran, 2003). Sarebbe però necessario verificare con più precisione le informazioni che Galvani possedeva sul conto di Folquet e la sua partecipazione alla Crociata.
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IV. Rimaneggiamenti profondiQuesti interventi, dettati anch’essi da ragioni d’ordine morale, si distinguono da quelli esaminati nel paragrafo III per il fatto che l’intervento di Galvani rielabora porzioni molto ampie del testo provenzale, modificando radicalmente le strutture profonde, narrative e ideologiche, del racconto.
Un esempio di particolare interesse è la traduzione della vida di Bernart de Ventadorn.
Choix V: 69 Np: 20
El vescoms si avia molher mot gentil domna e gaia, et abelic se mot de las cansos d’en Bernart, e s’enamoret de lui et el de la domna, si qu’el fes sas cansos e sos vers d’ella e de l’amor qu’el avia d’ella e de la valor de leis. Lonc tems duret lor amor ans qu’el vescoms ni l’autra gens s’en aperceubes;
e quan lo vescoms s’en aperceup, el s’estranhet de lui, e fes fort serrar e gardar la domna. E la domna fes dar comjat a’N Bernart, que s partis e s lunhes de tota aquela encontrada
Il Visconte si avea donna molto gentile e gaja e desiderosa di pregio avere, e di andare per le bocche de’ ministrieri e giullari. Piacquerle le canzoni di Messer Bernardo, e per queste lo assicurò che facesse suoi versi di lei e di sua bellezza e valore: e il trovatore li fece, e venne poggiando in alto suo pregio tra la gaia gente, e fenne il nome invidioso alle alte donne della contrada. Ma Bernardo prese baldanza, e cominciò a dire troppo amorosamente: al Visconte ciò seppe male, e la donna felli dare commiato così che si partisse di tutte sue terre.
Con un calcolato equilibrio tra soppressioni censorie e interpolazioni esplicative, Galvani riesce a neutralizzare le pericolose potenzialità della fin’amor trobadorica in maniera ancor più profonda di quanto aveva fatto l’antico biografo. Tre i nuclei essenziali:
a) la fin’amor è descritta come ‘gioco di società’, ovvero un ‘contratto’ con beneficio bilaterale delle parti: la donna vuole essere lodata dal trovatore – “Il Visconte si avea donna molto gentile e gaja e desiderosa di pregio avere, e di andare per le bocche de’ ministrieri e giullari […] e il trovatore li fece, e venne poggiando in alto suo pregio tra la gaia gente, e fenne il nome invidioso alle alte donne della contrada” –; Bernart ottiene un notevole miglioramento della propria reputazione. Le clausole non prevedono però coinvolgimento affettivo: da qui la soppressione dell’immorale prima pericope – s’enamoret de lui et el de la domna – e dell’altrettanto immorale conclusione, lonc tems duret lor amor ans qu’el vescoms ni l’autra gens s’en aperceubes;
b) la donna stessa ad autorizza Bernart a comporre canzoni – “lo assicurò che facesse suoi versi” – che celebrano, non l’amor qu’el avia d’ella e […] la valor de leis, come nel testo provenzale, bensì soltanto la bellezza e il valore della viscontessa;
c) il ‘contratto’ è rescisso per esclusiva responsabilità di Bernart che, confondendo ‘amore’
e ‘gioco di società’, “prese baldanza, e cominciò a dire troppo amorosamente”.
Se le strutture narrative non risultano, in verità, particolarmente alterate, ben diverso è invece il risultato che Galvani ottiene sul versante ideologico. Innestando l’interpolazione censoria nella rete narrativa tessuta dal biografo, Galvani intuisce e svela, ancorché in maniera molto rudimentale, i meccanismi di ricodificazione della poesia trobadorica applicati nelle
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Vidas. E questa intuizione – benché nata, per eterogenesi dei fini, da scrupoli censorî di natura morale – sarà confermata, un secolo dopo, dalle ricerche di Meneghetti (1992: 189-196).
Un caso emblematico di modifica radicale delle strutture profonde del testo è invece la traduzione della vida di Gausbert de Puegcibot.
Choix: 51 Np: 196
Et avenc se qu’el anet en Espanha, e la dona remas. Et us cavayers de la terra si entendia en ela, e fes e dis tan que ab se la ’n menet; e tenc la longa sazo per druda, e pueys la layset malamens anar.
E cant Gausbert tornava d’Espanha, el alberguet un ser en la ciutat on ela era. E cant venc lo ser, el anet de fora per voluntat de femna, et intret en l’alberc d’una paubra femna, que’l fon dig que lainz avia una bela donzella. Et el intret e trobet que aquela era la soa molher; e can la vi, fon gran dol entr’els e gran vergonha. Ab leis estec aquela nueg, e lendeman s’en anet ab ela, e menet la en una mongia, e aqui la fes rendres. E per aquela dolor el laysset lo trobar e ’l cantar
Ora avvennesi ch’elli andò in Ispagna, e la donna rimase. Un cavaliere della terra si intese in lei, fece e disse tanto che ne la menò, e dopo averne fatto misuso, abbandonolla malamente in sulla via. Venne la donna a uno castello disagiata e spregevole, cominciò a vivervi a modo di paltoniera. – Torna Gualberto d’Ispagna, ed in viaggio albergò nel castello dove s’era fuggita la donna. Quando venne sera, uscì fuora per le vie, ed una meschina accontossi a lui e gli chiese pane, ma bene fu riconosciuto dalla paltoniera, che dette un grido e volle fuggire. Allora Gualberto presala, ed isguardatala fissamente per mezzo’l viso, riconobbe in colei la donna sua ch’elli avea lasciata abbiente e fornita di tutti i beni.
Menolla seco all’albergo, seppe da lei ogni avventura di sua vita, e funne tra loro grande duolo e vergogna. L’indimane si partirono insieme del castello, e la donna si rendette in un munistero con gran pentimento e grande vergogna, e Messer Gualberto per quel dolore lasciò il trovare e’l cantare, e non parve più tra la gente.
Il testo provenzale aveva tutti gli elementi per mettere in agitazione Galvani: l’adulterio iniziale della moglie di Gausbert (us cavayers de la terra si entendia en ela, e fes e dis tan que ab se la ’n menet; e tenc la longa sazo per druda); la cattiva condotta della donna che dopo essere stata abbandonata dall’amante finisce per prostituirsi (ancorché la vida non lo affermi esplicitamente); l’adulterio potenziale di Gausbert (e cant venc lo ser, el anet de fora per voluntat de femna) – prontamente rimosso nella traduzione (“quando venne sera, uscì fuora per le vie”) – e,
‘dulcis in fundo’, la rocambolesca agnizione dei coniugi in un contesto che fa vergognare entrambi (et el intret e trobet que aquela era la soa molher; e can la vi, fon gran dol entr’els e gran vergonha).
La traduzione vira allora verso il feuilleton pathétique, ma perde coerenza narrativa. Nella vida, il velo monacale che suggella il racconto funziona, quanto meno, come espiazione di entrambe le colpe della donna (l’adulterio e la sua attività di prostituta), ma nella traduzione di Galvani si fatica a capire – e, a dire il vero, non lo si comprende del tutto – perché la moglie di Gausbert, rapita e violentata (“un cavaliere della terra […] fece e disse tanto che ne la menò, e dopo averne fatto misuso, abbandonolla malamente in sulla via”), poi costretta a vivere d’espedienti prima di ricongiungersi col marito (“venne la donna a uno castello disagiata e spregevole,
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cominciò a vivervi a modo di paltoniera”), dovrebbe rinchiudersi (o essere rinchiusa) “in un munistero con gran pentimento e con grande vergogna”.
V. Interpolazioni
Questi interventi sono in parte affini a quelli commentati nel paragrafo IV. La differenza fondamentale risiede nel fatto che, in questo caso, non si tratta della rielaborazione e/o amplificazione di passaggi del testo provenzale, ma di paragrafi creati ex novo dal traduttore che rielabora in forma narrativa i molteplici spunti offerti dalla produzione lirica del trovatore oggetto della biografia.
Un esempio rilevante, in tal senso, è la conclusione che Galvani aggiunge alla razo ‘della domna soiseubuda’ (Boutière & Schutz, 1973: XI.C), relativa a Bertran de Born, Domna, pois de ni no·us cal (BdT 80,12):
E di questa ragione fece il Sirventese, che nomò della Donna intrascelta e che comincia: Donna, poi che di me più non vi cale, e questo sirventese fue molto a piacere de li buoni uomini e delle gentili donne di suo linguaggio, poiché in esso il trovatore riferisce per rima ciò che suona aver fatto per colori soavi Zeusi pittore, il quale compuose una sua Dea bellissima delle isvariate bellezze di cinque donzelle di Agrigento. Ora bene si converrebbe, poi che vera cavalleria è discaduta e venuta quasi al niente, che uomo si penasse e si procacciasse di strarre quel tanto di bene che in ciascuno è tuttavia, per farne uno Cavaliere intrascelto, che fosse a speglio e miraglio di valore e di cortesia, e dove si intendessero li cavallieri e vi cercassono a compire ciò di che hanno mancamento e soffratta. (NP: 65)
Quasi un secolo prima di Schutz (1947-1948), Galvani individua nella tradizione classica l’ascendente del procedimento retorico utilizzato da Bertran de Born, ancorché l’erudito modenese sembri rinviare – non come la bibliografia moderna al De Inventione ciceroniano (Leube-Fey, 1971: 32; Beltrami, 1996), che colloca l’aneddoto a Crotone (Guy Achard, 1994:
II.i, 3-4) –, bensì, vista la menzione delle “isvariate bellezze di cinque donzelle di Agrigento”, a un passo del libro XXXV della Naturalis historia di Plinio il Vecchio: “Agragantinis facturus tabulam, quam in templo Iunonis Laciniae publice dicarent, inspexerit virgines eorum nudas et quinque elegerit, ut quod in quaque laudatissimum esset pictura redderet” (Ian & Mayhoff, 1921: 181). Nella conclusione, inoltre, Galvani stabilisce un implicito collegamento tra la domna soiseubuda di Bertran de Born e il cavalier soiseubut di Elias de Barjols (Bel Guazanhs, s’a vos plazia;
BdT 132,5).
In questo tipo di interpolazioni, Galvani cade non di rado in errori (anche d’un certo peso), che in parte dipendono dallo stato della ricerca trobadorica nell’ultimo terzo del s. XIX, ovvero, dalle informazioni in suo possesso. Un caso significativo è la traduzione della vida di Guglielmo IX. Una delle più brevi biografie trobadoriche – circa dieci righe a stampa nell’edizione di Boutière e Schutz (1972: I) occupa sei pagine nella traduzione del Novellino provenzale, che aggiunge una nutrita serie di chiose erudite; la traduzione della cobla II di Ben vuelh que sapchon li pluzor (BdT 183,2) – Eu conosc ben sen e folor (Pasero, 1973: 257, vv. 8-14) – e, soprattutto, il testo provenzale di quello che Galvani riteneva l’unico componimento superstite di Eble II di Ventadorn – uno scambio di coblas tra questi e lo stesso Guglielmo IX – corredato dall’esposizione delle fantasiose circostanze che diedero origine al canto (Galvani, 1873: 4-6):
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Ora sappiate come dalla Contea di Poitù si rilevava la Viscontea di Ventadorno, della quale messer Ebles era in quella stagione Visconte; e bene sappiate che questi fu gentile uomo, cortese ed adritto ed indottrinato, sì che fu altresì buon trovatore e dittatore per rima come il Conte Guglielmo, tanto che fu detto per nome il Cantore, e tanto seppe mantenere ed onorare le buone donne, quanto lo suo signore seppe esserne calognoso, ed averle a vile. E questo vi mostrerò io, contandovi come il Conte Guglielmo partisse uno periglioso giuoco d’amore a Messer Ebles, e come il Visconte si sapesse estrarre del partimento con suo onore e con senno. Ed ecco il mottetto del Conte Guglielmo nel suo naturale linguaggio:
En Ebles, ara m digatz, si ben etz endeutatz […]
Ed ecco il mottetto del Visconte di Ventadorno in pronta e gentile risposta:
Seinher, be m demandatz cum hom desesperatz […]
Il testo pubblicato da Galvani, però, non ha nulla a che vedere con i primi trovatori, in quanto si tratta d’uno scambio di coblas tra Gui ed Eble d’Ussel (Audiau, 1922: 79-81): N’Ebles, pus endeptatz (BdT 194,16) e En Gui, be·m demandatz (BdT 129,4). L’errore procede dal manoscritto utilizzato da Galvani (1845: 91), il canzoniere d, sezione cartacea di D e copia parziale di K (Mussafia, 1867: 412-421; Suchier, 1880), che nella cobla di Eble d’Ussel reca in incipit la variante (con IKa1) Seinher [e non En Gui], be m demandatz. Inoltre, IKda1 collocano lo scambio di coblas sotto la rubrica La tençon de n’Ebles e de son seignor. L’attribuzione di Galvani, come ricorda la BdT, godette d’un certo credito presso i filologi tedeschi dell’ultimo terzo del s.
XIX: “er [l’échange entre Gui et Eble d’Ussel] wurde daher von Bartsch nach Galvani Vorgang als besondere Tenzone zwischen dem Grafen von Poitiers und seinen Lehnsmann Eble de Ventadorn aufgefaβt (183,9 = 130,1), von Suchier, Jahrb. 14, 120 aber richtig identifiziert”
(BdT schede 194,16 e 130,1; cf. Mussafia, 1867: 353).
VI. Il traduttore imita il biografo: la razo relativa a Raimon Gaucelm de Béziers Vorrei concludere questa rassegna delle traduzioni galvaniane con un testo molto peculiare, che è in grado di rivelare il senso ultimo dell’operazione compiuta da Galvani. Tra le 82 prose del Novellino provenzale, figura una razo relativa a Raimon Gaucelm de Béziers, A penas vau en loc qu’om no·m deman (BdT 401,2), che non appartiene al corpus provenzale di vidas e razos e che Galvani elabora ex novo imitando in parte l’antico biografo.
[LXXII]
COME RAIMONDO GAUCELMO IMITÒ PERSIO SATIRO IN UN SUO SIRVENTESE.
(A. 1230-1280)
Raimondo Gaucelmo o Guillielmo fu de Bezieri nè povero nè manente ma mezzolano. Fue uomo molto savio e seppe bene lettere, e largo fu di suo senno e di suo avere a chi gliene faceva dimando. Amò il trovare e il cantare, e funne per ciò amato da tutti li buoni uomini della contrada, e fuori d’ella dal Marchese d’Este che bene lo accolse e lo rimise in arnese.
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Bene fu onorato e tenuto caro sin che visse al secolo, donde poco è che uscinne a cheto ed in pace. Molti beni ebbe e molti onori da sir Amerigo Conte di Narbona, da Messer Giraldo da Lignano, e da uno ricco Barone di Palese Signore d’Uzesto che avea in nome altresì Raimondo Gaucelmo: per che ne’ suoi cantari il Trovatore lo vien dicendo Fratello. Ora sappiate ch’e’ trammise a codesto altro Ramondo un Sirventese che, volto in nostro aperto volgare, incomincia così:
A pena è ch’ov’io giunga, uom non mi chieda:
Ramondo, avete fatto un che novello?
Ed io a tutti lo spongo senza sceda, che un tal chiedere in ver m’è buono e bello.
piacemi s’odo dir di me: gli è questi quel tal che sa far Gobbole e Sirventi;
nè già per robbe ch’uom mi doni o presti;
troppo ho di robbe, ed ho chi m’en presenti.
E tutto ciò tolse egli bellamente al detto di uno antico autore in grammatica, detto Persio il Satiro, che avea per innanzi lasciato scritto:
Scire tuum nihil est, nisi, te scire hoc, sciat alter.
At pulcrum est digito monstrari, et dicere: hic est.
L’acquisita familiarità di Galvani con le razos trobadoriche si riconosce nel periodo esordiale, laddove, come di norma nelle antiche biografie, si dettano le generalità anagrafiche e professionali del trovatore. Nel prosieguo, però, l’obiettivo di Galvani non è esporre – come invece accade nelle razos provenzali – le circostanze in cui ha avuto luogo il canto, bensì segnalare – come già nell’interpolazione alla razo della ‘Domna soiseubuda’ (cf. supra, punto c) – un frammento della cultura classica del trovatore, ovvero quella che Galvani considera la fonte latina (Persio) del sirventese di Raimon Gaucelm.
Nulla di più lontano, dunque, dal modus operandi del biografo antico, ma nulla di più eloquente circa il fatto che in questo particolare episodio della ricezione dei Trovatori nel s.
XIX erudizione e rimaneggiamento esegetico-narrativo sono strettamente connessi. E lo stesso può dirsi per le altre informazioni che Galvani utilizza per l’elaborazione del testo.
La fonte principale è, senza dubbio, il corpus conservato di Raimon Gaucelm:
a) dalla cobla esordiale di BdT 401,2 – tradotta nella razo (per il testo originale cf. Radaelli, 1997: 146, vv. 1-8) – Galvani ricava le indicazioni sulla buona reputazione del trovatore;
b) dai componimenti Quascus planh lo sieu dampnatge (BdT 401,7) e Belh Senher Dieus, quora veirai mo fraire (BdT 401,4) – Radaelli, 1997: rispettivamente 161 e 208 – e dalle rubriche che nel canzoniere C introducono i due testi e che Galvani leggeva in Choix V (375; per un’edizione più accurata cf. Bertolucci, 2017 [1978]: 266 e Radaelli, 1997: 30):
Planch ne [sic] fes Raimon Gaucelm en l’an que hom contava M.CC.LXII, per un borzes de Bezers lo qual avia nom Guirautz de Linhan.
So son II coblas que fes Raimon Gacelm del senhor d’Uzest que avia nom aissi quon elh Raimon Gaucelm.
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procedono i riferimenti a “Messer Giraldo da Lignano” e a “uno ricco Barone di Palese Signore d’Uzesto c’avea in nome altresì Raimondo Gaucelmo”.
C’è però il concorso di un’altra fonte trobadorica. Nessun componimento di Raimon Gaucelm testimonia infatti d’un suo soggiorno presso la corte estense – “e funne per ciò amato da tutti li buoni uomini della contrada, e fuori d’ella dal Marchese d’Este che bene lo accolse e lo rimise in arnese” – e qui Galvani confonde – o vuole confondere: si veda l’esordio della razo,
“Raimondo Gaucelmo o Guillielmo” – il Raimon Gaucelm trovatore biterrese con il Guilhem Raimon attivo in Italia, alla corte dei Marchesi d’Este tra il 1215 e il 1236. Tra i 4 componimenti conservati di questo trovatore figura uno scambio di coblas con Ferrarino da Ferrara – Amics Ferrairi (BdT 229,1a = 150,1; ed. Gatti, 2019) – nel quale Guillem Raimon si rivolge a Maistre Ferrairi “in stile retoricamente fiorito e in tono alquanto pomposo […] per chiedergli del Marchese d’Este, il cui potere tanto si espande, del suo ‘prez’ e soprattutto del
‘don’, delle sue disposizioni liberali” (Folena, 1976: 480):
Amics en Raimon Guillem, pueis entrest mest nos, d’un pes preon tan tost m’aleugest; rest doncs e pui’a mon mos sens sus el test. Dest m’en dreig e·us respon que pro a conqest d’Est lo marqes amics rics […]
[…] Pics no·il tol so savers, qar gent dona qan sayzona, co·s tayn a baro pro, qi s’adona vais gen bona;
e car vos sa ibo no tayn q’espona ni·l somona qe·us onre ni·us do pro.
(ed. Gatti, 2019: 17, vv. 25-33 e 39-46)
Da qui Galvani attinge le informazioni circa il soggiorno di Raimon Guillem – immediatamente omologato a Raimon Gaucelm – alla Corte Estense e la buona accoglienza che questi ricevette dal Marchese. Sul fatto che Galvani conoscesse questo componimento non sussistono dubbi: il testo è pubblicato integralmente – per altro quasi vent’anni prima dell’edizione di Monaci (1889: 103), che i repertori considerano come la prima edizione del componimento – proprio nel Novellino provenzale, ed è anzi il perno sul quale Galvani costruisce un’interessante interpolazione alla traduzione della vida di Ferrarino da Ferrara (1870: 205-207)
Udito avete come Maestro Ferrari era per un Campione nella corte de’ Marchesi, e come e’ vi rispondea adesso a’ Trovatori e Giullari che il provocavano di loro rime. Ora sappiate che un dì ci venne Messer Ramondo Guglielmo, e fattolisi innanzi, per provare il senno e ’l savere
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del Maestro gli si drizzò, non con motti leggieri, ma con un cantare di maestria in sì care rime, che male ponnosi recare in nostro piano volgare di sì, e sì gli disse in suo volgare d’oco:
Amics En Ferrari … del pro Marques d’Est van man dizen qu’a sen fi […]
E Maestro Ferrari, senza nullo soprastamento, seppe rispondergli, altresì, in care rime, di punto in punto così:
Amics’N Guillem Raimon pueis say us entrest mest jeu d’un pes qu’es preon tantost malengrest rest […]
Le due prose di Galvani sono dunque in strettissimo rapporto: l’interpolazione alla vida di Ferrari giustifica e dà fondamento all’‘invenzione’ della razo relativa a Raimon Gaucelm. Questa peculiare operazione di rielaborazione e riscrittura dei dati della storia letteraria dei trovatori racchiude però un senso più profondo e per metterlo a fuoco è necessario aggiungere al dossier almeno un altro testo, più antico rispetto alla redazione del Novellino provenzale. Si tratta della lettera dedicatoria a Francesco IV d’Este che Galvani premette al Fiore di storia letteraria e cavalleresca dell’Occitania, licenziato nel 1845. Qui Galvani traccia il proprio autoritratto di erudito in parallelo al profilo di Giammaria Barbieri, sottolineando che entrambi hanno potuto illustrare le lettere provenzali grazie alla generosa protezione accordata loro dagli Estensi (1845a, 2-3 e 5):
Primo in Italia a scrivere dottamente della lingua e della poesia provenzale era Giovanni Maria de’ Barbieri modenese; e questi, raccogliendo la singolare dottrina sua in un libro ch’egli intitolava Arte del Rimare, volevalo indirizzato per debito e per affezione alla Nobilissima Altezza di Alfonso II da Este, “perciocché”, così egli scriveva, “essendo io suo suddito per nazione e suo uomo per beneficio di lei, così mi reputo obbligato, per legge di fedeltà e di gratitudine, a dedicarle i parti del mio ingegno, come già le ho dedicato per suo servizio la vita che mi resta ed i figliuoli usciti di me medesimo”. Per venti anni io mi sono venuto logorando in istudi non dissimili da quelli dell’avvertito filologo modenese; ed ora che una solenne occasione sembra concedermi ch’io ne pubblichi il frutto, intendo insieme di far mie le parole del Barbieri, ed intitolare questo primo volume alla R. A. V., a cui del pari mi obbligano antica sudditanza e personale servigio […]
Conceda dunque la R. A. V., succeduta alla grandezza degli Azzi VII e degli Alfonsi II, che io, sottentrando ai Ferrari e ai Barbieri, e com’essi accolto clementemente nella Corte de’ miei Principi, deponga ai piedi del trono la prima tra le fatiche mie; e voglia Ella per tal maniera perpetuare nella nobilissima Casa Estense il pieno patrocinio delle lettere provenzali e de’ suoi cultori, ed accordare all’ultimo tra questi, in auguratissimo premio, la continuazione della Sovrana sua Grazia.
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Tra questa dedicatoria e le traduzioni del Novellino provenzale passano 25 anni. Ma c’è un file rouge che tiene insieme i tre testi e che, in certa misura, tocca tutte le provincie della provenzalistica galvaniana: Modena, la dinastia Estense e l’idea, orgogliosamente rivendicata, che la ricerca erudita è stata possibile solo grazie a un’illuminata azione di mecenatismo culturale. Si tratta ovviamente, almeno per quel che riguarda la dedicatoria, del riflesso delle particolari condizioni politiche dell’Italia pre-unitaria, con la sua frammentazione territoriale, con l’esistenza di molteplici corti e con l’azione culturale che non di rado queste corti promuovevano. Tali circostanze, lo sappiamo, cambiano rapidamente: nel 1859 il Ducato di Modena e Reggio è annesso al Regno di Sardegna; nel 1861 si compie l’unità d’Italia, con tutto ciò che ne consegue sul piano della ristrutturazione politica della Nazione e della progressiva trasformazione della ricerca da erudizione di corte, promossa dal mecenatismo di questo o quel signore, in ricerca propriamente accademica svolta nelle aule universitarie; aule che, come si è visto, restano invece precluse a Galvani. Ciò che però non si affievolisce – anzi si rafforza, proprio perché spostata indietro nel piano mitico del ricordo nostalgico – è la fierezza della propria appartenenza – elemento identitario fortissimo – alla gloriosa tradizione modenese e al mecenatismo culturale degli Estensi.
Ed è qui, a mio avviso, che si può percepire il senso ultimo dell’operazione compiuta da Galvani nel Novellino provenzale. In maniera implicita – ma poi evidentissima se si contestualizzano correttamente tutti i segmenti della sua produzione erudita – Galvani traccia una ‘genealogia d’ingegno’ nella quale riserva per sé il posto dell’ultimo discendente d’una gloriosa tradizione erudita che à rebours passa per Ludovico Castelvetro, Giammaria Barbieri e arriva fino al trovatore (e antologista di trovatori) Ferrarino da Ferrara. E se nel 1845, al momento di licenziare la dedicatoria del Fiore, Galvani è ancora un suddito dei Marchesi d’Este e può quindi tracciare un duplice parallelo encomio, del signore (Francesco IV) e del suo illustre antenato (Azzo VII), ma anche del suo suddito (Galvani stesso) e dell’illustre precursore di questi (Ferrarino da Ferrara, che Galvani considerava compilatore dell’intero canzoniere estense D, e non solo del florilegio che i provenzalisti oggi siglano Dc):
Splende tra gl’illustri Estensi Azzo VII di specialissimo lume, perché non solo accolse nella sua Corte i trovatori Occitanici, ma vi tenne onorato un Maestro Ferrari da Ferrara che, dottissimo in quella lingua gentile, quasi campione nella Corte di Este, tenzonava con loro e ne sponeva le difficoltà e gli artifici; e curava finalmente che su belle membrane se ne conservassero le rime, e se ne venisse compilando così quel manoscritto che, arrivato sino a noi, è di presente una delle gemme più rare della R. Estense Biblioteca. (1845a: 4)
nel 1870, nelle prose del Novellino provenzale, segnatamente nell’interpolazione alla vida di Ferrarino da Ferrara e nella razo relativa a Raimon Gaucelm, Galvani non può non fare i conti con il mutato orizzonte politico: la Corte modenese non esiste più, il glorioso mecenatismo culturale degli Estensi si è ormai concluso per sempre. Ed ecco allora che il discorso si sposta interamente nel passato: gli Estensi restano sullo sfondo, inamovibili nel ruolo di illuminati protettori dell’ingegno trobadorico, e Galvani assume, a fianco di Ferrarino, la voce più discreta, ma non per questo meno importante, del narratore ‘fuori campo’.
Il senso dell’operazione è chiaro. Da un lato, Ferrarino; dall’altro, Galvani stesso. Due facce della stessa medaglia. L’uno, come altro l’altro, “dottissimo in quella lingua gentile [il provenzale], quasi campione nella Corte di Este […] sponeva le difficoltà e gli artifici” della poesia trobadorica; l’uno, come anche l’altro, tos temps stet en la chasa d’Est. Ed è qui, in ultima
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analisi, che si misura tutta la distanza di Galvani dai primi filologi romanzi propriamente detti, vale a dire: la consapevolezza di essere parte ancora attiva di quella lunga e gloriosa tradizione trobadorica modenese. Ma proprio questa consapevolezza da un lato non gli permette ancora di considerare il testo come oggetto da studiare con distaccata obiettività scientifica, dall’altro lo legittima ad intervenire su di esso con manipolazioni e interpolazioni di carattere narrativo- erudito. Questa è, a mio avviso, la ragione profonda della complessa rielaborazione narrativa che Galvani propone nelle traduzioni del Novellino provenzale.
Operazione nostalgica? Con certezza. Operazione di scarso fondamento scientifico?
Sicuramente. Ma non per questo operazione meno valida, a patto però che la si comprenda correttamente e la si contestualizzi entro l’opera dell’autore e il relativo orizzonte storico- politico. Inoltre, come dicevo all’inizio, operazione di sicura rilevanza, in quanto ultimo capitolo – e un capitolo tutto modenese – della ‘preistoria’ della Filologia Romanza, segnatamente della Filologia trobadorica, in Italia.
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